A 87 anni Alejandro Jodorowsky, scrittore, fumettista e regista di classici come El Topo e La Montagna Sacra, ci regala un film meraviglioso pieno di vita ed emozioni. Poesia senza fine è il secondo capitolo autobiografico dell’artista di origini cilene e comincia proprio dove si interrompe La danza della realtà, cronaca dell’infanzia cilena dell’autore.
Santiago del Cile, al debutto degli anni Cinquanta. Alejandro Jodorowsky ha vent’anni e il desiderio di diventare poeta contro il parere del padre che lo sogna medico, ricco e borghese. Intrappolato nell’ennesima riunione di famiglia, recide (letteralmente) l’albero genealogico e ripara in una comune di artisti avanguardisti per coltivare finalmente il desiderio ardente. Ispirato dai più grandi maestri della moderna letteratura Latino Americana (Enrique Lihn, Stella Díaz, Nicanor Parra) e immerso nella sperimentazione poetica, Alejandro farà la sua rivoluzione culturale.
Con Poesia senza fine, Alejandro Jodorowsky invita lo spettatore al viaggio. Un viaggio introspettivo che pesca ancora una volta nella sua biografia e nel suo universo fantasmatico, dischiudendo la stagione rocambolesca dell’adolescenza e muovendo verso l’età adulta delle prime espressioni artistiche, dei primi turbamenti sentimentali.
Opera immensa, audace e generosa, Poesia senza fine comincia dove si interrompe La danza della realtà, cronaca dell’infanzia cilena dell’autore. Se la madre canta sempre il suo ruolo come in un film di Jacques Demy e il padre, tiranno domestico, vende ancora lingerie umiliando i poveri, a ‘crescere’ è Alejandrito, eroe adolescente, esaltato e scapigliato che chiude coi genitori e abbraccia la carriera di poeta.
Jodorowsky prosegue il racconto giocoso e caricaturale della sua esistenza, inventando e reinventando un altro cinema, personale, libero, senza limiti. Un cinema taumaturgico abitato da creature fantastiche che sembrano fuggite dall’immaginario felliniano. Poeti, clown, nani, ballerine e giocolieri scendono in pista per salvare quello che possono con un atto poetico prodigioso. Su tutti dominano Stella Díaz (Pamela Flores), poetessa dai seni opulenti e i capelli rossi, che inizia Alejandrito al sesso e alla bellezza aggrappata a un’erezione senza fine, Enrique Lihn (Leandro Taub) compagno di notti liriche ed alcoliche che interpreta la poesia in azione e prosegue ‘tutto dritto’ fino al mattino, Pequeñita (Julia Avedano), nana che vuole crescere con l’amore. L’incontro del protagonista con gli amici poeti ridefinisce la sua vita e ridimensiona il terrore e l’orrore del quotidiano. Perché per Jodorowsky l’immaginario è nostro amico e aiuta a riconciliarsi col dolore. Il nostro, il suo. E a questo titolo Brontis e Adan Jodorowsky, figli di Alejandro, impersonano nel film i padri e figli in divenire, l’emanazione simbolica (e incarnata) che contiene la soluzione del trauma.
Vero e proprio atto psicomagico, l’autore stana il conflitto e lo scioglie intervenendo fisicamente nel film, prendendo per mano il tormento dei personaggi e gettando una luce sentimentale sull’ombra tumultuosa della sua creazione. Tra fantasmi e realtà, per Jodorowsky nessuna verità può essere enunciata fuori da questa alleanza, l’autore abbraccia il giovane uomo che fu col padre, convertendo in poesia i gesti di violenza e le parole odiose che segnarono il loro congedo. Perché lo scopo della poesia è fare del mondo un posto migliore, anche molto tempo dopo, anche quando è troppo tardi. La poesia è tutto quello che crea, e per estensione quello che ci crea.
Esaltazione del cinema magico, quello di Méliès, Poesia senza fine commuove coi suoi trucchi naïf e l’emozione che li nutre riaccordando nella finzione il figlio col padre. Teatrale e frontale nei suoi quadri fissi che rimandano alle strisce dei fumetti, il film danza di nuovo coi ricordi reali e immaginari, inscenando una terapia familiare, divorando la paura, conciliando quello che è inconciliabile e liberando il campo a una poesia senza fine. Quella della magia forse, quella del cinema senza dubbio. Universo esoterico in ebollizione, il mondo di Jodorowsky è filtrato da sogni stupefacenti. Influenzato dalla corrente surrealista, alla fine del film annuncia la sua partenza per Parigi per incontrare Breton, rinnovare il suo ‘manifesto’ e rimandarci al terzo e ultimo capitolo della sua vita sognata, trasposta, esagerata, sublimata. Tutto è simbolico e tutto è vero. Al cuore di Poesia senza fine c’è la scoperta del mondo artistico, la rottura con l’autorità (genitoriale, politica) e il travaglio di un dolore che cova da qualche parte, nell’incomprensione, nella separazione, nella perdita. Quella del padre, morto prima di avere avuto il tempo di riallacciare, di riallacciarsi.
Romanzi di formazione allucinati, La danza della realtà e Poesía sin fin crescono il loro protagonista all’ombra di due titani, il padre, virilità sbraitante che alleva nel culto dell’eroismo sovietico, e la madre, matrona gigantesca che veglia su di lui come la fata di Pinocchio. A lei l’autore dona repliche liriche realizzando il sogno materno di diventare cantante. Sesso, amore, amicizia, passione, famiglia, religione, morte, tutto quello che fa una vita, si ritrova ingigantito e colorato da Jodorowsky che approda il suo viaggio autobiografico nella Parigi del 1953, dove (ri)nacque filosofo, uomo di teatro e di cinema, fumettista, romanziere, performer, maestro di tarocchi, maître à penser. E dalle rive della Senna riparte la terza parte di un testamento in progress che spunta di nuovo il budget col finanziamento collettivo (crowdfunding), trasformando i soldi in poesia (argent poétique), i desideri pantagruelici in distacco, il provocatore universale in mariposa, la rabbia (filiale) in gioia (paterna). La gioia di aver trovato nell’arte il metodo per essere (anche) un buon padre.